L’HOMME

                      SAUVAGE

Come la creazione di un soggetto atipico tardo medievale mette a confronto interpretazione artistica e restituzione filologica.

Di Mario Venturi

IL CONTESTO STORICO DELL’ILLUSTRAZIONE DI JOB

Progetto e realizzazione della scenetta

Qualche tempo fa mi capitò sottomano la fotocopia di una tavola del famoso pittore ed illustratore francese Job (nota 1) che suscitò in me un grande interesse. Si trattava della rappresentazione alquanto singolare di uno scontro sostenuto da alcuni cavalieri in sella a cavalli covertati, di cui due ben visibili in primo piano, con una sorta di gigante completamente ricoperto al pari del suo cavallo da quella che appariva come essere una spessa pelosità da orso. L’aspetto belluino dell’omaccione, e del suo cavallo, si accentuava in virtù della barba e della chioma entrambe folte, ricciute e di color fulvo dell’uno e di alcune code (volpe, lupo?) appese e svolazzanti attorno alla testa del secondo. L’enorme e nodosa clava brandita alta dal personaggio, ritto a sembrare ancor più imponente sulle staffe, attribuiva all’insieme un tocco definitivo di forza invincibile e di ferocia. Tant’è vero che i due cavalieri sopra citati apparivano nell’illustrazione totalmente soccombenti e in procinto di cadere da cavallo comparendo in secondo piano alcuni loro compagni d’avventura già sconfitti e male in arnese.

Essendo la tavola priva di qualsiasi didascalia o di un rimando all’opera a cui apparteneva, non nascondo che in un primo momento, non riuscendo ad interpretarla, l’accantonai. Certo non si potevano avere dubbi sull’epoca sul paese e sull’ambiente socioculturale di appartenenza dei personaggi, intendo i cavalieri, rappresentati. Gli stemmi sulle vesti e le coverte dei cavalli, i cimieri e le caratteristiche degli armamenti e degli equipaggiamenti, tutto portava ad una serie di inequivocabili conclusioni: Francia, o più precisamente ducato di Borgogna, metà del XV secolo, cavalieri dell’Ordine del Toson d’oro, giostranti o torneanti che dir si voglia. Finalmente mi ricordai di aver letto di forme di gioco guerresco chiamate Passo d’arme, particolarmente in voga nella Francia e nella Borgogna ducale del Quattrocento, in cui, con riferimento ai vari mondi della mitologia classica, delle saghe arturiane, della poesia dell’amor cortese, della Chanson de geste e dell’esoterismo dei maghi, delle fate, le streghe, i filtri, i talismani, i draghi, insomma di tutta la “cultura dell’intrattenimento” della classe nobile del basso medioevo dell’Occidente cristiano, con riferimento, dicevo, a questi mondi, venivano messe in scena (in campo) tutta una serie di varianti alle più classiche forme di gioco guerresco quali erano la giostra ed il torneo. Uno di questi Pas d’armes prevedeva che, con varie regole, i cavalieri partecipanti combattessero in vario modo avendo come obiettivo ultimo la liberazione di una fanciulla imprigionata in un castello (lo si costruiva in legno!) guardato da un temibilissimo guardiano. Nello stesso tempo mi ricordai dell’esistenza nella cultura europea dell’epoca di una figura mitica e di radice molto antica detta “Uomo Selvaggio”. Questo personaggio con il corpo completamente coperto di peli ed abitante dei boschi rappresentava la parte animale dell’animo dell’uomo civilizzato sepolta nel profondo ma sempre pronta a prorompere in superficie con tutto il suo contraddittorio carico di ferocia ma anche di forza positiva, di animalità ma anche di primordiale purezza.

– due esempi di “Uomo Selvaggio” dipinti da Albrecht Durer alla fine del XV sec..

– Battaglia fra Mori e “Uomini Selvaggi” in un arazzo datato 1440.

Nel momento in cui ho deciso con convinzione di scoprire l’origine della fotocopia in mio possesso la rete mi è venuta in soccorso anche al di là delle mie più rosee aspettative. La tavola mostrava con chiarezza il re di Francia fra gli spettatori dell’evento. Di conseguenza la digitazione del nome dell’autore (Job) e dei possibili re di Francia (Charles VII e Louis XI) ha prodotto una schermata in cui, inimmaginabilmente, la famigerata tavola compariva più e più volte. Da qui individuazione del libro ed irrinunciabile acquisto dello stesso; costo: il P.I.L. dell’Estonia..! Si tratta dell’opera di Job e G. Montourgueil intitolata Louis XI pubblicata a Parigi nel 1905; opera rara di cui, a differenza di altre illustrate da Job, non esistono riedizioni moderne. La rete offre scaricabili tutte le tavole che lo illustrano ma avere il libro in mano per un appassionato è un’altra roba!

Ecco quanto emerge dalla lettura del libro. Alla morte del re di Francia Carlo VII avvenuta a fine luglio del 1461, gli succede il figlio Luigi XI. In aperto conflitto con il padre, Luigi da tempo si è messo sotto la protezione di Filippo “il Buono”, duca di Borgogna, il quale ora, al momento del suo insediamento sembra manifestare l’intenzione di incassarne il dividendo. E’ in questo senso che il novello re di Francia interpreta l’esagerato sfarzo con cui il Borgogna partecipa ai festeggiamenti per l’incoronazione accompagnandolo con ricche elargizioni di belle parole e di monete sonanti verso la popolazione di Parigi che lo osanna. Non si dimentichi che il confronto fra i partiti degli Armagnacchi e dei Borgognoni aveva insanguinato la Francia nei decenni precedenti. Ecco che re Luigi, in occasione del torneo che Filippo ha organizzato come gran finale dei festeggiamenti, escogita un modo per ridicolizzarne il sussiego. Ecco, secondo quanto si legge nel libro, quello che accade durante lo svolgimento del torneo: – Ad un tratto uno sconosciuto gigante fece irruzione nella lizza. Irsuto e vestito con pelli di bestie, orrendo sotto la sua maschera di naturale deformità, prima che si sia potuto informarsi, sbaragliando paggi e valletti, andò dritto verso i gentiluomini e facendo roteare la sua terribile clava, ricoprì l’arena di cavalieri disarcionati. La sorpresa era profonda non meno dello spavento. Il re di sottecchi se la rideva per l’avere ingaggiato questo tanghero dotato di una forza erculea e che vergognosamente con i grandi colpi del suo bastone aveva abbattuto, nella persona dei loro rappresentanti, l’orgoglio delle casate principesche! Ed è così che da parte sua, usando il suo scettro come una mazza, Luigi si accingeva ad abbattere le resistenze feudali laddove cozzavano con la sua autorità.” – . Chiaritone il significato niente più mi ha dissuaso dall’utilizzare la tavola di Job (ancora più bella nei suoi splendidi colori originali) come ispirazione per un elaborato modellistico. Già ho accennato come l’araldica dei personaggi rappresentati richiami, seppure con una certa approssimazione, quella di alcuni cavalieri iscritti nell’elenco dei fondatori dell’Ordine del Toson d’oro (Bruges 1430) e di quelli nominati nei capitoli che si tennero negli anni immediatamente successivi. Gli stemmi presenti sulla coverta del cavallo appena visibile a sinistra e del personaggio alla sua destra sono quelli Giovanni V signore di Créquy, n° 24 dell’elenco di Bruges, e di Giovanni di Lussemburgo, bastardo di Hautbourdin, n° 34 dell’elenco di Digione del 1433. In secondo piano, a destra, è visibile Tebaldo VIII di Neufchatel (n° 37, Digione) riconoscibile anche per il cimiero parzialmente visibile costituito da un volo (coppia di ali) di rosso alla banda d’argento. I problemi di identificazione, nascono con i restanti due personaggi rappresentati, quello a sinistra in secondo piano e soprattutto quello a destra, precisando che di entrambi sono visibili, e parzialmente, soltanto i cavalli. Lo stemma del soggetto in secondo piano, un fusato d’argento e d’azzurro, e quello dei duchi di Baviera, nessuno dei quali compare negli elenchi dei primi capitoli. Il cavallo in primo piano a destra porta il bandato d’oro e d’azzurro con bordura rossa di “Borgogna Antica”. C’è da supporre che il Job abbia inteso così rappresentare il duca di Borgogna Filippo “il Buono” o magari Carlo, conte di Charolais che gli sarebbe succeduto con l’appellativo di “il Temerario”. Il punto è che a quella data lo stemma dei duchi di Borgogna è molto più complesso ed altrettanto lo è quello del conte di Charolais.

– Copertina dell’edizione originale del 1904 del libro Louys XI illustrato da Job.

C’è da chiedersi se quelle che a me paiono come discrepanze siano frutto della carenza di informazioni mia o del Job. Faccio in tal senso un’ultima considerazione partendo dal fatto inequivocabile che tutti gli artisti, e nella fattispecie gli illustratori, che vogliono cimentarsi sulla tematica dei primi cavalieri del Toson d’oro, non possono prescindere dalla consultazione del Grand armorial équestre de la Toison d’or conosciuto anche come “Manoscritto dell’Arsenale”. (nota 2) Redatto fra il 1429 ed il 1461 l’armoriale consiste in una raccolta di stemmi e di armati a cavallo a tutta pagina in equipaggiamento da torneo, il tutto a colori. La raccolta inizia con una serie di figure piene dei regnanti d’Europa, seguono alcune pagine di scudi araldici ed in conclusione la rappresentazione, di nuovo a figura piena, di 34 cavalieri del Toson d’oro facenti parte delle prime nomine. Ebbene, fra i regnanti europei compiono il duca di Baviera ed un non meglio identificato duca di Borgogna con soltanto “Borgogna Antica” come stemma. Si aggiunga che detta raffigurazione comprende la stessa aquila dorata posta sulla testa del cavallo. Avanzo l’ipotesi che questa possa essere la situazione che ha tratto in inganno Job, equivocando sulla possibilità che anche questi due soggetti caratterizzati da queste araldiche facessero parte del cavalieri del Toson d’oro. Pur prendendo atto delle problematiche derivanti dalla probabile (sottolineo probabile) piccola incongruità storica dei personaggi rappresentati nell’illustrazione la mia intenzione di prendere spunto da questa per la realizzazione di una scenetta è rimasta tale. L’inizio del prossimo capitolo è dedicato ad esaminarne la motivazione. Anche l’ambientazione presente nella tavola di Job merita un commento ed offre una chiave di lettura sull’attendibilità della situazione rappresentata. Al centro del palco degli spettatori si evidenzia la presenza di un re di Francia: la corona ed i gigli d’oro in campo azzurro lo testimoniano. Inoltre partendo da sinistra appaiono i seguenti stemmi: scudo con leone rosso (Lussemburgo/Lusignano?), bandiera con gigli (Bourbon con bordura composta), scudo e stendardo (ermellino di Bretagna). Ne concludo che il grande illustratore francese ha saputo rappresentare l’evento in un modo molto accurato.

I PERSONAGGI DELLA SCENETTA

I cavalieri

Realizzare una scenetta partendo dall’illustrazione di Job ha avuto il suo punto di forza nei margini di manovra che mi sono dato nell’utilizzarla come libera ispirazione e non come un qualcosa da riprodurre fedelmente, anche in virtù di quanto segue. Quando progetto lavori di argomento medievale che prevedono più soggetti (e nella fattispecie due) portatori di elementi araldici, come veste, coverta o scudo, mi piace che gli stemmi rappresentati siano uno “geometrico” e l’altro “animalesco” e che nello stesso tempo entrambi i metalli (Argento/Bianco e Oro/Giallo) siano presenti. A condizione, ben inteso, che tutto ciò non cozzi contro l’attendibilità storica. Se possibile cerco sempre che il rosso sia presente, perché è il colore che crea il più bel contrasto con il metallo delle armature. In virtù di quanto appena detto ho ritenuto che il miglior modo di muoversi fosse quello di verificare quali personaggi appartenenti ai primi elenchi di nomina avessero araldiche con le caratteristiche giuste per comporre l’abbinamento da me voluto. Ne ho concluso che il cavaliere di sinistra, quello d’argento al leone rosso, fosse senz’altro, anche se parzialmente, da confermare. Eliminando il bastone d’azzurro, brisura identificante il bastardo di Hautbourdin, ho deciso di rappresentare Pietro di Lussemburgo, conte di Saint Pol , n° 11 dell’elenco di Bruges. Scorrendo gli elenchi sopra detti la mia scelta è andata allo scaccato d’oro e di rosso di Filippo, signore di Ternant, ritenendo che sarebbe stato un ottimo abbinamento con il bianco del campo ed il rosso del leone lussemburghesi. Le araldiche quadrettate, in particolare per le coverte , sono fra quelle che più mi piace rappresentare. Al pari del leone che, essendo uno degli elementi araldici la cui sagoma risente maggiormente degli stili di epoca e di ambiente dà, se ben eseguito, un ulteriore tocco di fedeltà storica. Di conseguenza la scelta finale è stata di piazzare il conte di Saint Pol a sinistra ed il signore di Ternant a destra.

– Raffigurazione medievale di un “Uomo Selvaggio”.

L’Homme Sauvage

E’ solo a ridosso della redazione di questo contributo che caparbiamente ho passato in rassegna tutto ciò che avevo sotto mano sull’argomento Pas d’armes ed anche se in nessun caso appaia l’esplicita notizia che cercavo a proposito del mio Homme Sauvage alcuni elementi molto vicini sono emersi. Tutti i testi parlano della presenza di giganti e di uomini-belva nei tornei e nelle feste cavalleresche organizzate in Francia ed in Borgogna già a partire dalla prima metà del Quattrocento. Cito fra gli altri il Pas d’Armes del l’Arbre d’Or dove uno dei quadri viventi è costituito da un gigante tenuto prigioniero da un nano. A conferma della diffusione di giochi e scherzi con la messa in scena di figure, emerge su tutti gli altri il famoso episodio avvenuto il 28 gennaio del 1396 con il re di Francia Carlo VI “il Folle” fra i protagonisti, noto come Le Bal des Ardents cioè “Il Ballo degli Ardenti”. Recita un passo di Uno specchio lontano di Barbara Tuchman: – “Sei giovani tra i quali il re e Yvain, figlio illegittimo del conte di Foix, si erano travestiti da “selvaggi della foresta” con addosso panni strettamente avvolti intorno al corpo imbevuti di cera resinosa e di pece, su cui stava appiccicato uno strato di canapa a brandelli che “li faceva apparire folti di pelo dalla testa ai piedi. “ Delle maschere coprivano loro completamente il volto, rendendone impossibile il riconoscimento.” – Accade il peggio, da una torcia parte la scintilla che appicca il fuoco ai malcapitati; risultato: quattro morti, il re salvo per miracolo. L’episodio, al di là della sua drammaticità, bene illustra quanto fosse diffuso il gusto per queste mascherate frutto dell’attrattiva che in ogni epoca suscita il “mostruoso” , dell’emergere di archetipi ancestrali (vedi i mamuthones sardi), ed a tutto quell’armamentario della letteratura cavalleresca a cui facevo riferimento all’inizio di questa esposizione. In una miniatura dedicata a questo episodio ai piedi dei personaggi pelosi fiammeggianti compaiono alcune clave dello stesso tipo di quella che brandisce l’omone di Job: non mi pare un caso. Altre similitudini vanno ricercate nella mitica figura del Green Man, mitico abitante delle salve caro alla letteratura medievale di prevalente area anglosassone e mitteleuropea.

Torno a confermare che non ho trovato un chiaro riferimento ad un evento che prevedesse la presenza di un “Uomo Selvaggio” a cavallo ma sono convinto che Job avesse nel realizzare la sua illustrazione precise informazioni in proposito. A conferma di tutto ciò registro che nelle notizie relative ai tornei della Borgogna di Giovanni “il Buono”, comprese le manifestazioni avvenute per la fondazione dell’Ordine del Toson d’Oro ricorrono spesso i nomi dei membri della casa di Lussemburgo e nella fattispecie quello del bastardo di Hautbourdin, vale a dire uno dei personaggi che Job mette a confronto con il selvaggio. Nel realizzarne la figura il mio sforzo è stato tutto teso a renderlo il più simile possibile a quello dell’illustrazione, cavallo compreso.

– Il Ballo degli Ardenti in una miniatura di un’edizione quattrocentesca delle Chroniques di Froissart.

ARMI, ARMATURE, EQUIPAGGIAMENTO

Codici e reperti a confronto

Parallelamente all’individuazione dei cavalieri da mettere in campo contro l’Homme Sauvage mi è stato necessario verificare se e quanto fossero adeguate all’epoca ed alla situazione le armi, le armature e l’equipaggiamento disegnati da Job. In tutto ciò non poche sono state le perplessità che sono emerse ed in alcuni casi quello che ho deciso di fare ha comportato qualche compromesso. Da subito mi è stato chiaro che la bontà, certamente di carattere estetico ma anche di fedeltà storica sostanziale, del lavoro del grande illustratore francese, era tale da consentirmi di portare avanti il mio progetto. Entrando subito nel merito delle perplessità tutto parte dal fatto che Job, come appare chiaro, ha utilizzato come principale fonte documentaria per la sua illustrazione proprio il Manoscritto dell’Arsenale e questo con risultati di fedeltà storica non sempre a mio modesto parere positivi.

– Philippe de Ternant in una tavola del Manoscritto dell’Arsenale.

Nello sviluppare il tema oggetto di questo capitolo prenderò in esame le informazioni che emergono dalle fonti scritte, due di queste in particolare, nonché i seppur scarsi reperti. Le due fonti sono il già citato Manoscritto dell’Arsenale ed il famoso Traicté de la forme et devis comme on fait un tournoi ( nota 3) più comunemente conosciuto come Livre des tournois du Roi René redatto da Renato d’Angiò intorno al 1460 universalmente considerato l’opera più completa in lingua francese del tardo medioevo dedicata ai giochi guerreschi. Partendo da quanto scaturisce dalle fonti iconografiche e dai reperti conservati prenderò in esame e confronterò le varie soluzioni , coerenti o meno ad esse, adottate da Job ed evidenzierò quando e quanto io le abbia condivise.

Armamento difensivo: gambe – testa – tronco

Partendo dalle gambe dei cavalieri la soluzione visibile sistematicamente sul Manoscritto dell’Arsenale (M.A.) e parzialmente sul Roi René (R.R.) è quella che comporta l’adozione di arnesi completi di piastra metallica. Suscita non poche perplessità il fatto che il trattato mostri immagini complete di cavalieri con le gambe ricoperte di piastra mentre nel trattare le protezioni delle varie parti del corpo sia nelle illustrazioni che nel testo ometta quelle delle gambe. Ecco un passo del testo che pare chiudere la questione: – “Ici après s’ensuit la façon et la manière dont doivent etre les harnois de tete, de corps et de bras, timbres et lambrequins, cotte d’armes, selles, hourt et houssures de chevaux, masses et épée pour tournoyer.” – Dunque, a ben vedere, nessuna protezione alle gambe, cosa più che logica laddove i grandi arcioni anteriori avvolgenti le proteggono adeguatamente rendendone superflua qualsiasi altra forma di copertura. Tutto ciò risulta ancor più convincente se si considera che nelle forme di gioco guerresco all’arma cortese corta (spada o clava) le gambe non sono interessate se non nello scontro dei cavalli. In tal caso è appunto l’ampiezza dell’arcione anteriore ad assolvere al compito di protezione dal possibile schiacciamento fra i corpi dei due animali. E anche su questo aspetto si sofferma il Roi René nel trattare le caratteristiche costruttive del saccone posto a protezione del torace del cavallo. Altre considerazioni in proposito, quest’ultime di segno opposto, si potrebbero fare nei casi di scontri con la lancia, sia in campo aperto che alla palanca, ma la cosa porterebbe il discorso troppo lontano dal polo d’interesse di questa trattazione.

– Alcuni cavalieri sfilano prima di scontrarsi “alla palanca” durante i giochi di Saint Inglevert. Miniatura di un’edizione quattrocentesca delle Chroniques di Froissart.

– Scena di giostra “alla palanca”. Miniatura tratta da un’opera quattrocentesca dedicata alle imprese del cavaliere Jean de Saintré. Archivio iconografico dell’autore.

Diversamente, ed a mio avviso più coerentemente, i numerosi turnierbuch di area tedesca conservati che si affollano fra la metà del quindicesimo secolo e quella del secolo successivo, mostrano giostranti e torneanti sprovvisti di protezione metallica alle gambe, sempre beninteso nei casi di gioco guerresco all’arma corta.

– Copia moderna di un’illustrazione di un codice tedesco della seconda metà del XV sec. Raffigurante due cavalieri delle famiglie Wolmershausen e Pallandt giostranti con la spada cortese. Vedi: Galleria/Giostre e Tornei nn. 5 e 11.

Primo di una serie di elementi controversi che intendo esaminare qui di seguito, presenti sui personaggi del “M.A.” questo della protezione delle gambe mi induce ad una considerazione da fare una volta per tutte e sulla quale, pur valendo anche nei casi di prossima disamina, non tornerò. Ritengo che tale opera pur redatta in contemporanea con i soggetti rappresentati finisca per non essere una restituzione fedele nel campo dell’armamento da guerra o da gioco guerresco che sia assolvendo con le sue illustrazioni ad una specifica funzione di identificazione araldica stereotipata nei pochi ripetitivi atteggiamenti dei personaggi, avendo proprio nella splendida qualità del disegno araldico la sua maggior cifra di valore artistico. Per il Roi René la risposta si fa più incerta e pur avanzando alcune ipotesi trovo inadeguato formularle senza la possibilità di un riscontro spendibile. Il Job pare non essersi posto il problema , o forse la risposta è un’altra come vedremo in seguito, e rifacendosi ad “M.A.” ha coperto di metallo le gambe dei suoi cavalieri. Non mi sento di criticarlo anche perché nel prossimo caso che tratterò la sua scelta è stata diversa.
Ho imparato che nel corso del Quattrocento (ma forse anche prima) a differenti tipi di gioco guerresco ovviamente le armi da offesa ma anche le protezioni si andavano specializzando in base alla natura dell’attività ludico-marziale che caratterizzava ciascuno di essi. Grande importanza avevano in tal senso le caratteristiche dell’elmo. Mi soffermerò sulle due principali che il Boccia nel suo dizionario terminologico definisce elmo da giostra ed elmo da torneo, quest’ultimo meglio noto come a bocca di rana. Sorvolando sul significato intimo della terminologia che ci porterebbe a dilungarci su che differenza passa fra giostra e torneo, esaminiamo le caratteristiche strutturali ed il campo d’uso di questi due tipi di protezione della testa. L’elmo da giostra consiste in una protezione globulare, anche se spesso piuttosto voluminosa, con l’apertura anteriore a tutta faccia protetta da una graticola di stecche verticali ed orizzontali che si incrociano lasciando molti spazi vuoti ed una visibilità ottimale. Va da sé che detta forma ha subito una miriade di varianti anche molto consistenti. Si tratta della più adatta delle protezioni del capo quando ci si deve difendere, in una mischia tutta agilità e volteggiar di cavalli, dalle botte di un’arma corta quale una spada, una mazza o una clava d’acciaio o cortesi di legno che siano.

– Elmo da torneo. Illustrazione da Le Livre des Tournois du Roi René.

– Elmi da torneo del tipo “a griglia” (XV e XVI sec.). Archivio iconografico dell’autore

Diversamente il bocca di rana ampio e pesantissimo, talvolta davvero gigantesco, è concepito per provvedere all’incolumità di un folle che, vuoi in campo aperto vuoi alla palanca, si getta spron battuto contro un contendente che, come lui, con una poderosa lancia (anche se a punta piatta) lo sfida al gioco di centrare la targa altrui, o a spezzare detta lancia, o a disarcionarsi, o magari una delle tre cose a piacere! A questo serve il pesante elmo da giostra e per questo ha quella forma e quelle dimensioni: la vista attraverso la feritoia (la bocca) è scarsissima, la mobilità zero, armeggiare mazza in mano con questa sorta di scafandro addosso è impossibile.

– Elmi da giostra del tipo “a bocca di rana” (1450/1500). Archivio iconografico dell’autore.

– Cavalieri impegnati in una carriera di tipo gestech. Pagina di un turnierbuch tedesco della prima metà del XVI secolo.

Un torneante in campo con l’arma corta in mano non dovrà indossarlo davvero mai ma nel Manoscritto dell’Arsenale di questi torneanti ce ne sono… e come! La cosa non può tornare. E questo non va giù nemmeno all’ottimo Job; infatti l’unico elmo che in secondo piano nel suo disegno si vede è inequivocabilmente un elmo da torneo. Complimenti! Ed è proprio con questo tipo di elmo che ho deciso di equipaggiare i miei personaggi. Non a caso l’autore delle figure “Pegaso” dalle quali li ho tratti è arrivato nel realizzarle alla mia stessa conclusione. Si tratta dell’elmo da torneo illustrato nel Roi René mentre quelli in “M.A.” sono di un tipo diverso, la cui vista consiste in una stretta feritoia protetta da un serie di tondinelli metallici sagomati posti soltanto in senso verticale. Anche relativamente alle decisioni da prendere relativamente alla protezione del tronco ( petto, schiena, falda) il ragionamento si è svolto con i soliti criteri. Il codice “R.R.” si sofferma ed illustra un apparecchio petto/schiena/falda alleggerito nelle prime due parti. In “M.A.” la schiena e la falda metalliche sono, seppur parzialmente, visibili, mentre per il davanti resta da dire che il tessile ricopre il petto adeguandosi alla sua globosità oltre che alla forma tronco conica della metà anteriore della falda. In area tedesca non è da escludere in certi casi l’omissione della protezione della schiena, ridotta peraltro nelle decadi successive a non più che un telaio facente funzione di tenuta in sede dell’elaborato pettorale piuttosto che di protezione. Job ha scelto di rappresentare la schiena metallica e la conseguente mezza falda posteriore di lame, andando così ad accentuare l’aspetto guerresco piuttosto che ludico dei personaggi (si ricordi quanto detto per le gambe), soluzione che ho condiviso e riproposto sulle mie figure.

Nel prendere in esame le caratteristiche tipologiche dell’armamento difensivo dei cavalieri, sostanzialmente identico fra illustrazione e modello, inizierò da quanto resta da dire dell’elmo, argomento già esaurientemente trattato salvo alcuni suoi importanti elementi accessori: il cimiero ed il lambrecchino. Considerato che entrambi non hanno alcuna funzione protettiva (nota 4) ed appartengono al campo dell’araldica, ne rimando la trattazione al paragrafo dedicato a questo tema. I due cavalieri (uno nell’illustrazione) indossano un’armatura del tronco tipica della parte centrale del Quindicesimo secolo. Ne sono elementi salienti il petto e la schiena composti entrambi di due elementi articolati che vanno a sovrapporsi parzialmente e di una falda di lame poste in orizzontale incernierate da una parte (di solito a sinistra) ed affibbiate dall’altra. Affibbiati sul davanti ad una delle lame della falda, di solito la penultima in basso, pendono delle lamine sagomate appuntate in basso dette fiancali accompagnate, almeno in una prima fase, da altre due più piccole ai lati dette fiancaletti, il giro degli elementi pendenti dalla falda si completa sul retro con la lama di batticulo.

– Una delle tavole dedicate ai giochi guerreschi tratta da : L. e F. Funcken, Le Costume, l’Armure et les Armes au Temps de la Chevalerie, Vol. 1.

Gli arnesi all’altezza di quella data hanno ormai raggiunto un elevato grado di complessità fatto di un minuzioso sistema di lamine di raccordo fra coscia, ginocchiello e schiniera; la parte esterna del flessore è protetta da un’ampia aletta a forma di cuore rivettata al ginocchiello o talvolta forgiata insieme a questo in un unico pezzo. Le braccia godono di un sistema di protezione concepito con gli stessi criteri costruttivi delle gambe, nel nostro caso invisibili al di sotto delle maniche della sopravveste. Tutta questa “macchina” atta a proteggere tutte le parti del corpo, concepita e messa a punto nelle sue linee fondamentali in Italia, prende il nome di armatura bianca, così detta perché le ampie piastre di metallo forbito che la compongono portate a vista riflettono la luce, producendo un bagliore bianco. Alcuni dettagli visibili nell’illustrazione ed altrettanto presenti sulle figure sono nello stile proprio delle armature in uso Oltralpe. Il guanto metallico è a falangi articolate e si completa in un manichino di forme piuttosto importanti; la scarpa di lame termina in una punta molto pronunciata.
Il Roi René indica che la spada cortese (ammetto di mancare di una definizione più puntuale) al pari della mazza devono essere dipinte e va dunque da sé che entrambe siano di legno. Fortunatamente almeno in questo caso Arsenale, René, Job e Mario hanno fatto squadra

 

– Spada e mazza da torneo. Illustrazione da Le Livre des Tournois du Roi René.

La sopravveste

Nel realizzare le vesti dei cavalieri ho preferito discostarmi dall’illustrazione e rifarmi ai cavalieri del Manoscritto dell’Arsenale. La motivazione è di natura squisitamente modellistica nel senso che il telo posteriore svolazzante mi è parso conferire maggiore dinamismo alla composizione. Si tratta di un indumento, munito di maniche imbottite attaccate (cucite, allacciate?) alla spalla e che stringendosi al polso terminano dentro ai manichini dei guanti metallici. Sorta di poncho asimmetrico, questo tipo di sopravveste consiste in un telo anteriore, più corto, stretto in vita e di uno posteriore, più lungo e ampio, lasciato libero di pendere lungo la schiena; un’apertura circolare consente il passaggio della testa. Ed è appunto questo il tipo di tessile indossato sopra l’armatura dai personaggi del “M.A.” destinato ad accoglierne lo stemma davanti, dietro e su ciascuna manica, nella sua forma completa in ciascuno di questi quattro elementi. Diversamente “R.R.” propone vesti più tradizionali munite di ampie mezze maniche. Job ha ibridato le due forme, dando così luogo ad un tipo di indumento peraltro molto diffuso a partire dal tardo Trecento. Il così detto jupon.

L’equipaggiamento del cavallo

Riguardo alla coverta dei cavalli nei due codici di riferimento gli elementi similari prevalgono sulle diversità. Questa è in entrambi i casi composta da un davanti ed un dietro separati, lunghi quasi fino a toccare terra (spesso le figure in “M.A.” mancano delle gambe posteriori del cavallo). La coverta copre sempre la coda mentre, ed è questa la differenza fra le due fonti, a differenza di quelli in “M.A.” in cui il tessile si estende anche a coprire anche il collo e la testa del cavallo, quest’ultimi in “R.R.” sono scoperti. Il che comporta la messa in evidenza di testiere metalliche a proteggere la fronte del cavallo, diversamente dal primo caso dove la testa del cavallo è risolta graficamente in una sagoma decisamente astratta che pare alludere ad una protezione rigida e costolata piazzata sotto la copertura di stoffa. In più la soluzione appena descritta non prevede aperture per gli occhi, cosa plausibile soltanto per i giochi del tipo rennen o gestech dove l’animale poco si discosta da una sorta di missile lanciato cecamente dal suo cavaliere contro l’avversario. Tutti argomenti che una volta di più dimostrano quanto lontane dall’attività pratica reale siano le figure del Manoscritto dell’Arsenale. Sulla coverta in sé resta da dire soltanto che Job vi propone una fenditura in corrispondenza della metà circa partendo dal basso della parte posteriore, soluzione che anch’io ho adottato.

Un altro degli elementi controversi, dialoganti fra ciò che i reperti ed i documenti scritti ed iconografici ci segnalano e ciò che la nostra fonte di ispirazione ci propone, riguarda la selleria. La sella ad arcione posteriore metallico munito di archetti di rinforzo che Job disegna è a tutti gli effetti una sella da guerra. Detto questo mi è parso che la rappresentazione di questo dettaglio fosse da accettare seguendo la falsariga avviata con la conferma delle protezioni metalliche delle gambe, argomento ampiamente trattato in precedenza. Nello stesso tempo non si può sottacere la presenza in secondo piano, a sinistra del selvaggio, di una sella priva di questi rinforzi e con forme più vicine a quelle adibite al gioco guerresco che si vedono nell’iconografia. La differenza fondamentale fra le selle dell’illustrazione e quelle conservate è che quest’ultime sono praticamente prive di arcione posteriore, cosa che le fonti iconografiche confermano appieno. Credo però opportuno non escludere che selle di un tipo così speciale possano essere da circoscrivere all’area tedesca, visto anche che sia i reperti sia le fonti iconografiche che le mostrano appartengono proprio a quell’ambiente. Il Manoscritto dell’Arsenale ed il Roi René paiono mostrare selle con un arcione posteriore di forma più tradizionale anche se di dimensioni contenute e comunque privo di rinforzi. Corroborano questa tesi le illustrazioni, eseguite da un miniatore fiammingo, di un opera scritta e fatta allestire dallo stesso René d’Anjou intorno al 1460: si tratta di un codice conservato presso la Biblioteca nazionale di Vienna (c.V. 2597) intitolato Le Livre du Coeur d’Amour éspris. Il protagonista vi appare più volte con armamenti da torneo, come la targa e la lancia, montato su un cavallo provvisto di una sella di tipo sostanzialmente tradizionale. Non tragga in inganno il fatto che il personaggio indossi diffusamente un elmo a bocca di rana, qui rappresentato in funzione prevalentemente simbolica. I suoi contendenti, più coerentemente, indossano questo tipo di protezione soltanto in caso di scontro con la lancia, testimoniando così l’attenzione del miniatore alla cura di questi particolari. Rimettendo insieme tutti questi elementi anche nel caso degli arcioni posteriori ho preferito “premiare” l’operato di Job rinunciando a scelte di natura filologica di una validità tutta da dimostrare.
Passando a trattare il davanti della selleria, e quindi gli arcioni anteriori ed a ciò che ad essi è connesso inizierò valutando quello cha appare nelle illustrazioni del codice “R.R.” sia nei personaggi interi che nei particolari. Nei casi di scontri cortesi in campo aperto, come accennato trattando dell’armamento delle gambe, il petto del cavallo veniva protetto da una struttura rigida o da un imbottito sistemato in prevalenza al di sotto della coverta. In alcuni casi veniva adottata una struttura facente tutt’uno con gli arcioni anteriori avvolgenti. In presenza di questa soluzione la parte anteriore della coverta copriva per intero anche gli arcioni anteriori. Nelle due raffigurazioni dello scontro fra due torneanti presenti in “R.R.” in un caso si apprezza questo tipo di soluzione comprensiva del rigonfiamento della coverta determinato dalla presenza della protezione sottostante, nell’altro tale rigonfiamento è assente. Si noti che in entrambi i casi i cavalieri stanno giostrando con la spada cortese. Diversamente le figure del Grand armorial équestre de la Toison d’or mostrano quanto segue: coverta di tipo tradizionale, assenza di protezioni pettorali, arcioni anteriori avvolgenti a sé stanti e dipinti allo stemma del personaggio. Questo tipo di soluzione è ben documentata in molte altre fonti, variando nelle dimensioni e nella forma della parte avvolgente degli arcioni, e pertanto è quella che ho deciso di adottare per i miei modelli, comprensiva dell’assenza di un’ulteriore protezione del binomio uomo cavallo, saccone o altro che potesse essere.

– Selle da giostra e da torneo (XV e XVI sec.). Archivio iconografico dell’autore.

– Copia moderna di un’illustrazione da Le Livre des Tournois du Roi René raffigurante i duchi di Bretagna e di Borbone in torneo.

Per le redini ed il morso ho adottato le stesse soluzioni presenti sia nel codice “R.R.” che nell’illustrazione di Job. Dunque le redini, o meglio e per chiarezza la redine singola, è di quelle talmente estese da consentire l’ennesima riproposizione dello stemma del personaggio. Il Manoscritto dell’Arsenale ignora sia il morso che le redini, salvo nel caso che citerò in una mia prossima argomentazione. Riguardo al morso la mia competenza vacilla per cui mi rifugio nel dire che ho equipaggiato i miei personaggi con quelli di tipo tradizionale. Altrettanto tradizionali sono da considerare sia le staffe che e gli sproni a rotella.
Un particolare assente in Job che ho inserito nelle mie figure è la maniglia fissata in orizzontale nel centro della parte alta dell’arcione anteriore. Presente esattamente in questa forma in “R.R.”, sia nel testo che nelle illustrazioni, la maniglia consente una maggiore stabilità in sella al cavaliere che l’afferra con la mano sinistra contemporaneamente alla redine. Le fonti iconografiche di area tedesca e le selle pervenuteci invece propongono due maniglie piazzate in verticale a destra ed a sinistra, della parte arta dell’arcione. Il codice “M.A.” nelle tavole finite e dipinte non si attarda su questo particolare mentre in quelle finali non dipinte propone, ora a destra ora a sinistra, in base all’orientamento della figura, un anello a cui va ad attaccarsi la redine costituita da una corda piuttosto sottile.

L’ARALDICA

Come appare chiaro dai temi fin qui affrontati gli elementi araldici di identificazione del personaggio ne monopolizzano l’immagine, nelle varie forme di cui la principale, lo stemma propriamente detto, va ripetendosi occupando ogni spazio utile. Successivamente allo sviluppo di questo tema, seguirà l’esame degli altri elementi araldici: il cimiero ed il lambrecchino. In assenza dello scudo, spazio primigenio deputato all’esibizione dello stemma, il buon apparato araldico quattrocentesco (specie in torneo) vuole che questo si ripeta sulla sopravveste, sulla coverta, sulla sella e, ove le dimensioni lo consentano, sulle redini. Si noti che nessuna forma di gioco guerresco prevede l’uso di pennoncelli o banderuole attaccate alla lancia. La giornea (qui con maniche) accoglie lo stemma completo quattro volte: davanti, dietro, senza che le cariche animalesche e gli inquartati si ribaltino, e su entrambe le maniche, dove invece tali ribaltamenti su quella destra sono da preferirsi. La coverta del cavallo vuole anch’essa lo stemma completo ripetuto quattro, se non sei, volte, davanti e dietro a destra come a sinistra. Gli animali araldici e tutte le cariche disegnate con un orientamento preciso si ribaltano secondo quel principio che, mutuato dalle bandiere, viene definito “guardare all’asta”; nel caso della coverta nella direzione della testa del cavallo. Le restanti due occupano (con ribaltamento) i due lati del cappuccio che avvolge la testa del cavallo. Io, pigerrimus, ho dipinto il leone del Saint Pol una volta sola sui due quarti anteriori. Gli arcioni anteriori vogliono anch’essi uno stemma a destra ed uno a sinistra, con ribaltamento. Nel caso di fasce o scacchi le due metà, va da sé, si fondono in una. L’orientamento dello stemma sulle redini dipende dalle caratteristiche grafiche di quest’ultimo.

La decorazione araldica è (sarebbe…) una disciplina sottoposta a molte più regole di quanto un profano possa immaginare. I numerosi manuali di disegno araldico ne sono la prova. Fortunatamente per me la pluriennale esperienza in materia mi ha dotato di un minimo di padronanza di queste regole; fortunatamente per il lettore non mi dilungherò in dotte dissertazioni sull’argomento. Per cui mi limiterò ad accennare agli aspetti più significativi della decorazione araldica dei miei cavalieri in lizza contro l’Homme Sauvage. Pietro di Lussemburgo, conte di Saint Pol porta d’argento al leone di rosso, coronato ed armato d’oro e lampassato d’azzurro. Lo stile del leone disegnato da Job è perfetto col suo torace smilzo i grandi ciuffi di pelo il suo aspetto più da leonessa che da leone maschio (praticamente non ha criniera) e la sua grande bocca spalancata. Si tratta insomma della corretta forma di un leone araldico borgognone della metà del Quattrocento. Ho cercato di fare in modo che in tutte le parti in cui il leone era dipinto questo si distribuisse nello spazio a disposizione nel modo più uniforme possibile adeguando la sua forma a quella dello spazio destinato ad accoglierlo. Quella della distribuzione armoniosa delle cariche nello spazio è una delle regole principali del disegno araldico. In Francese si chiama loi de la plenitude; in Italiano non so. Relativamente allo scaccato d’oro e di rosso di Filippo di Ternant mi pare importante che gli “scaccati” vogliono che in ogni fila ci siano lo stesso numero di scacchi di entrambi i colori, normalmente tre e tre, salvo indicazioni alternative presenti nel blasone. Volendo rispettare questa regola ma nello stesso tempo ottenere un risultato ottico gradevole ho adottato un accorgimento che vado ad illustrare. Ho adottato la regola del tre più tre a quello che ho considerato la spazio guida e cioè quello del telo posteriore della giornea ed ho proseguito il lavoro in modo che le dimensioni degli scacchi nelle altre parti, coverta, arcioni, ecc. avessero la stessa proporzione rispetto alle dimensioni dell’area decorata. Partendo da questo presupposto mi pare che il fatto che gli scacchi della veste e dell’arcione siano della stessa dimensione a contribuito all’armoniosità della figura. In sostanza, qui come negli altri casi in cui mi è stato possibile, mi sono sforzato di coniugare l’indispensabile rispetto delle regole araldiche e degli stili propri alle varie epoche ed aree di appartenenza con alcuni accorgimenti di carattere estetico, cosa in cui l’esperienza e soprattutto l’amore per questa sottostimata disciplina artistica di nicchia che è l’araldica mi sono state di grande aiuto.

Il cimiero è per importanza il secondo elemento dell’ araldica e al di là delle brisure degli stemmi familiari è a tutti gli effetti un segno di distinzione individuale. Compare quasi contemporaneamente allo scudo stemmato nell’ultimo quarto del XII secolo ma si diffonde molto più lentamente personalizzandosi dopo un non breve periodo in cui assolve quasi esclusivamente ad una funzione meramente decorativa. E’ proprio nell’utilizzo nelle giostre e nei tornei che il cimiero trova la sua maggiore fortuna, divenendo via via sempre più elaborato e sempre più spesso caratterizzato da elementi che si discostano dai temi simbolici ed allusivi presenti nello stemma.
Costituito di materiali leggeri come legno, cartapesta, pergamena e con abbondante uso di piume e penne, questo viene ammannito e dorato o argentato (a foglia) e/o dipinto. Il cimiero viene variamente fissato sul coppo dell’elmo, tanto che lo scopo di alcune forme di scontro cavalleresco hanno come obiettivo proprio il suo abbattimento. Il cimiero del conte di Saint Pol è un drago alato bianco che scaturisce da una sorta di mastello dello stesso colore. La lingua del drago è rossa. Filippo di Ternant propone come cimiero un busto di donna vestita di blu, sulla testa con il volto al naturale ed un’acconciatura giallo oro poggia un drappo verde. Il busto della donna poggia su un ulteriore elemento araldico, cioè un tortiglione detto cercine o turbantino, stavolta ai colori dello stemma. L’apparato araldico a decorazione della testa si completa con il lambrecchino che ho realizzato nella forma scelta anche da Job, quella fortemente festonata detta svolazzi. Uno dei confronti a due del codice “Roi René” ne propone di identici mentre quelli del “Manoscritto dell’Arsenale” sono lobati e molto più piccoli. I lambrecchini nonché le fodere di essi stessi, le giornee e le coverte da me realizzati ripetono le colorazioni visibili nel “M.A.”. Entrambi i cavalieri esibiscono intorno al collo il “Collare” dell’Ordine del Toson d’oro costituito dal mitologico vello di Giasone in Colchide attaccato ad una catena composta da un’alternanza di acciarini e pietre focaie entrambi imprese della casa ducale di Borgogna. Due parole a proposito dei cimieri sulle teste dei cavalli: li ho omessi e ne sono tremendamente pentito…..

LA SCENETTA

La composizione 

E’ un problema di tecnica modellistica e non di restituzione storica quello che per primo ho dovuto affrontare. Forte dell’esperienza che mi deriva dall’essermi più volte cimentato nella riproposizione modellistica e dunque tridimensionale di soggetti pittorici o grafici rappresentanti più soggetti interagenti, ho dovuto verificare quali margini di fattibilità mi concedesse la bidimensionalità dell’immagine. Spesso le composizioni pittoriche, apparentemente più che verosimili, nascondono arbitrarie contrazioni degli spazi, soprattutto le profondità, tali da rendere impossibile trasporle a “tutto tondo” senza comprometterne l’armonia della composizione. Fortunatamente in questo caso la possibilità di ottenere un risultato modellistico sufficientemente conforme all’effetto scenico offerto dall’illustrazione mi è apparsa da subito sussistere, cosa che tutto sommato mi pare di potere, a posteriori, confermare.
Passare dalla bidimensionalità dell’illustrazione di Job alle tre dimensioni del modello ha comportato meno difficoltà di quante, ad una prima osservazione, mi erano sembrate sussistere. Si è trattato di fare in modo che l’ingombro delle coverte e della proiezione delle gambe del cavallo impennato dell’Uomo Selvaggio non impedisse di posizionare le tre figure vicine tanto da non fallire nel riproporre il dinamismo e l’effetto drammatico, vera prerogativa dell’illustrazione. Anche la scelta dell’atteggiamento del personaggio di destra, assente nell’opera di Job, è stata fatta per i soliti motivi di carattere narrativo nonché compositivo. In questo senso ritengo centrale l’effetto del braccio sinistro teso terminante nella mano che afferra la maniglia attaccata all’arcione. La posizione del braccio destro vuole invece suggerire un estremo tentativo di reazione del personaggio destinato però a fallire. Riguardo al cavaliere di sinistra ed il selvaggio ho inteso riprodurre quelli dell’illustrazione nel modo più fedele possibile. Unico accorgimento è stato quello di contenere l’effetto caduta sulla sinistra del cavaliere per non togliere compattezza alla composizione. Più problematica è stata la scelta della base. E’ mia abitudine contenere al massimo lo spazio destinato ad accogliere le mie composizioni salvo i casi, e quello in oggetto non lo è, in cui gli elementi scenici intendano contribuire alla collocazione storica della situazione rappresentata, e comunque alla narrazione prevista. Di conseguenza è stata mia cura ridurre al minimo l’impatto visivo della terra, unico elemento da rappresentare nella circostanza, con l’aggiunta del fatto che ottenere l’effetto della terra mossa dallo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli è abbastanza difficile.

Per tutta la prima fase della costruzione della scenetta avevo tracciato su un pannello di legno uno spazio circolare su cui sperimentare il posizionamento e portare avanti la messa a punto delle figure. A costruzione finita dopo aver approntato una base tonda delle stesse dimensioni di quello spazio, non essendo soddisfatto dell’effetto complessivo dell’elaborato, l’ho sostituita con una quadrangolare. La problematica consisteva da quello che mi pareva un aggettare eccessivo delle masse delle figure al di fuori della rotondità della base. Infatti è mia opinione che, laddove l’effetto dell’estendersi delle figure al di fuori dello spazio delimitato dalla base non sia scopo primario della composizione, sia una pratica da evitare o da contenere.

– Scene di torneo da Le Livre des Tournois du Roi René

I materiali

La figura dell’Homme Sauvage è l’unica completamente autocostruita. Gli elementi di cui questo soggetto si compone sono quattro: la posizione, l’espressione del volto, la barba ed i capelli incolti, il corpo coperto di peli. Quest’ultima è stata la componente più difficile da realizzare, lavorando a fresco lo stucco con pennello e arnesetti vari con il metodo di procedere a piccole zone, tipo le “giornate” degli affreschi! Anche la barba ed i capelli sono stati modellati a stucco fresco aggiungendo e stratificando “bacolini” di stucco ora più corti, ora più lunghi.
Relativamente alla copertura pelosa anche il cavallo ha richiesto lo stesso tipo di intervento eseguito su un soggetto Pegaso riadattato liberato da alcuni elementi accessori e modificando leggermente la posizione. Se si escludono alcune componenti Eisenbach (per il cavallo di sinistra) tutto il materiale commerciale usato è di produzione Pegaso. Gli ottimi tre cavalieri del Toson d’oro di questa ditta sono risultati perfettamente adeguati alle mie esigenze sia negli uomini che nei cavalli. Questo mi ha molto facilitato il lavoro; un’osservazione per tutte: ottimi gli elmi ed i cimieri. Ribadisco la mia scelta di realizzare i teli posteriori svolazzanti delle giornee (A&B tirato a sfoglia) ed i lambrecchini festonati per i quali utilizzo abitualmente alcuni rilievi in scala lucidabili di mia creazione. Ritenendo di scarso interesse dilungarmi su tutta una serie di ulteriori interventi di costruzione, più o meno piccoli delle figure, concludo con un breve accenno sulla pittura dell’elaborato. Come mia abitudine ho dipinto l’araldica con quel modo di procedere che io amo definire “a correzione progressiva”. Questo metodo consiste nel portare avanti in contemporanea la pittura del campo e della carica (o delle cariche) dello stemma o delle due o più pezze che compongono uno stemma a figure geometriche, partendo dalle prime stesure scure e venendo su su con le stesure successive sempre più chiare. Sono certo che l’intuito di cui il lettore è dotato gli permetta di capire perché ho definito questo metodo “a correzione progressiva”.
Detto che programmare e realizzare questo elaborato è stato molto divertente e mi ha stimolato ad un bell’approfondimento sulla tematica relativa ai giochi guerreschi della Borgogna ducale, a posteriori sono pentito di non aver osato nell’aggiungere qualche altro cavaliere alla composizione; se ne intravvedevano tre: magari altri due avrei potuto farli!

NOTE

 

1) Pseudonimo del disegnatore illustratore Jacques Onfroy de Bréville, 1858-1931.

2) Ms. 4790, proprietà della Bibliothèque Nationale de France, conservato presso la Bibliothèque de l’Arsenal.

3) Bibliothèque Nationale de France, Fr. 2695.

4) Il lambrecchino pare essere nato alle Crociate come protezione dal sole.

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