CAMPALDINO

         11 Giugno 1289

L’esercito della Lega Guelfa di Toscana composto da una prevalente forza fiorentina alla quale si aggiungono quelle di Pistoia, Prato, Lucca, Siena (ora guelfa), Volterra, San Miniato, San Gimignano e Colle val d’Elsa,  rinforzato anche da reparti bolognesi e masnade  romagnole mercenarie e non, vedi quelle di Maghinardo Pagani da Susinana, fronteggia quello Ghibellino che si aggrega intorno all’oste aretina. Guglielmino degli Ubertini, poliedrico vescovo di Arezzo, comanda l’esercito composto dai cittadini della sua città sostenuto dalle schiere dei grandi ghibellini fuoriusciti dalle città guelfe di Toscana e quelle delle famiglie centro italiane della stessa fede politica quali i Fieschi,  i Montefeltro e gli Ordelaffi. 
Il teatro dello scontro è l’alta valle dell’Arno, il Casentino, terra dominata ed incastellata dai conti Guidi, antica nobilissima schiatta suddivisa in rami ora guelfi ora ghibellini. Là, dove la valle spiana ampia, è Campaldino.  Su una costa domina il castello di Poppi, nido d’aquila del maggiore dei Guidi, il conte Guido Novello, ghibellino. Un “team” angioino composto dal giovane Amerigo di Narbona e da Guglielmo di Durfort comanda l’oste guelfa. Il re di Napoli, terminale del guelfismo d’Italia, li ha spediti a capitanare i “suoi” toscani e li ha fatti accompagnare da un robusto manipolo di cavalieri provenzali.
I Guelfi ammontano a 1.600 cavalieri e 10.000 fanti ; vi si contrappongono 800 cavalieri ed 8.000 fanti ghibellini. Tutta la prima parte del combattimento pare favorire i Ghibellini ma la tenuta della linea dei palvesari fiorentini ed il tempestivo intervento di una riserva di cavalleria guidata da Corso Donati capovolge l’esito della battaglia anche perché alla mossa del Donati non ne segue una analoga da parte di Guido Novello che preferisce allontanarsi dal campo di battaglia con la sua gente piuttosto che gettarsi nella mischia in soccorso degli Aretini soccombenti.
La giornata va dunque a Firenze ed ai suoi alleati.  A sera il vescovo Guglielmino, suo nipote Guglielmo Pazzo dei Pazzi di Valdarno ed il prode dei prodi Buonconte di Montefeltro giacciono morti insieme ad altri 1.700 dei loro. Dei Guelfi, fra gli altri, cade il Durfort, raggiunto da un verrettone mortifero nelle fasi iniziali della battaglia.

1 – Aimery de Narbonne, comandante in capo dell’esercito guelfo.

Aimery de Narbonne (Amerigo di Narbona) inviato dal re di Napoli Carlo II “lo Zoppo” al comando di un contingente di cavalieri provenzali e napoletani ad irrobustire l’oste della taglia guelfa, non era né il capo della sua casata né tanto meno, data la sua giovane età, in grado di assolvere al compito di stare alla testa di un esercito numeroso ed importante. La funzione di comando effettiva era svolta, come si vedrà meglio sotto, dal suo balivo Guglielmo di Durfort. L’armamento del personaggio è in perfetto stile angioino, dunque provenzale e/o napoletano. L’elmo, composito e di forma ogivata è provvisto di visiera mobile e di cimiero a ventaglio; gli arti sono protetti da apparecchi in cuoio cotto (elemento che comparirà con frequenza in questo capitolo). Il fatto di non essere il titolare della casata mi ha suggerito di ipotizzare un lambello a marcare il suo stemma “di Rosso pieno”.

 

2 – Cavalieri tosco angioini in torneo.

 

Sono qui visibili alcuni dei cavalieri che, dipinti in affresco da un artista ignoto, decorano le pareti di una sala del Palazzo Pubblico di San Gimignano. La datazione del ciclo pittorico è 1288-1292 e l’area culturale di riferimento è quella tosco angioina. Da quanto appena detto su data e ambiente stilistico emerge con chiarezza quanto queste raffigurazioni siano importanti per la conoscenza dell’aspetto e  delle caratteristiche dell’armamento offensivo e difensivo dei cavalieri protagonisti della battaglia di Campaldino, quantomeno quelli  della fazione guelfa. Si vedrà in seguito cosa differenziasse i cavalieri ghibellini.

3 – I cavalieri di San Gimignano.

La ricostruzione grafica dei cavalieri sopra citati dovuta alla mano ed alla competenza di Eduardo T. Coelho  consente la lettura puntuale di tutti gli elementi salienti del loro equipaggiamento. Mi preme innanzitutto segnalare che questi di San Gimignano sono i primi elmi a visiera mobile che io conosca a livello europeo e che, in ogni caso, trattasi di soluzione modernissima. La forma ogivata del coppo, ottenibile in virtù dell’evoluzione tecnologica, è altresì funzionale alla rotazione all’indietro della visiera gestita da un’incardinatura temporale. La protezione degli arti è il risultato di un complesso assemblaggio multi materico in cui prevale il cuoio cotto nel grasso e sagomato a caldo  con aggiunta di pelle, tessuto forte e metallo. L’araldica proposta sulla coverta del cavallo in forma di “seminato” è tipica dell’Italia (nonché della Germania). Si osservino anche le daghe “ad acca” (per la forma dell’impugnatura) ed i cimieri, specialmente quello a forma di arpia.

 

4/5 – Roman de Tristan.

 

La miniatura è tratta da un “Roman de Tristan” (Parigi, Bibl. Naz. Ma. Français 755), databile fra la fine del XIII all’inizio del XIV secolo. Se ad un primo sguardo gli armamenti che vi sono rappresentati possono apparire astrusi e di fantasia, le ricostruzioni grafiche di Eduardo T. Coelho (foto 5) ne propongono una lettura plausibile e di grande interesse. Dominano la scena le strutture in forma di alto collare ora di maglia o scaglie metalliche, ora di cuoio. Il Coelho interpreta i principi costruttivi delle protezioni degli arti prendendo spunto da quelle rappresentate a San Gimignano. Le numerose festonature presenti in varie zone dell’apparecchio difensivo sono ben visibili nelle miniature.

6 – Armature di Wisby.

La tavola qui riprodotta proviene da : C. Blair – European Armour. Si tratta di un reperto originale ed una riproduzione moderna di due delle armature meglio conservate fra quelle emerse in seguito agli scavi archeologici eseguiti nel sito della fossa comune nella quale vennero ammassati i caduti della battaglia di Wisby (1361). La datazione non inganni, nel senso che le protezioni rigide del tronco indossate al di sotto di un tessile sebbene raramente visibili, e quindi soltanto di recente documentate, erano diffuse fin dal secondo quarto del XIII secolo. Si tratta in questo caso di due lamieri, tipologia che si differenza dalla corazza per l’ampiezza delle lamine metalliche che la compongono e dal conseguente numero ristretto delle stesse. La corazza, che come il lamiere prevede che le piastre metalliche siano assicurate mediante rivetti sotto ad un incoiato (cuoio=corame=corazza), si differenzia da questo in quanto composta da numerose piccole piastre. Propongo questa immagine per mostrare come già alla fine del XIII secolo, sotto la veste, fosse organizzata la protezione del tronco precisando che la tipologia lamiere farà la sua comparsa alcuni decenni dopo Campaldino. Rimando alle immagini successive l’osservazione di quanto più propriamente fosse presente, nel campo delle protezioni del tronco, in quel momento.
Ben inteso, qualsivoglia protezione rigida del tronco doppiava e non sostituiva il sempre presente usbergo di maglia di ferro.

 

7 – Corazza.

 

 

Tavola tratta da : 2. Dizionari Terminologici – Armi difensive dal Medioevo all’Età Moderna a cura di Lionello G. Boccia.

8 – San Maurizio, cattedrale di Magdeburgo.

Questa scultura, datata intorno alla fine del XIII secolo, mostra una variante di protezione del tronco nella quale due file di rivetti segnalano la presenza di una struttura rigida all’interno di una copertura, mentre gli ampi lembi laterali che si allacciano dorsalmente sono similari a quelli delle armature di Wisby. Il Martin definisce questo apparecchio cotte de plates e gli studiosi nostrani attivi nella prima metà del novecento lo definivano paio di piastre.

9 – Guillaume Berard de Durfort.

 

Balivo di Aimery de Narbonne, Guillaume de Durfort sostituiva il suo signore nell’effettivo comando dell’oste dei collegati di fede guelfa. Un verrettone ghibellino lo raggiunse ad un occhio provocandone la morte durante le fasi iniziali della battaglia. Guillaume  presentendo il suo destino aveva lasciato una somma di denaro ai frati della Santissima Annunziata di Firenze perché, nell’eventualità delle sua morte,  provvedessero all’edificazione  del suo monumento funerario. Il chiostro attiguo a questa chiesa fiorentina ospita così una delle più straordinarie rappresentazioni plastiche di soggetto guerresco di tutto il medio evo (vedi fig. 11). Le ricerche fin ora fatte (che io sappia) sullo stemma del nostro Guglielmo non ci hanno portato oltre a quanto non sia visibile sul suo monumento funerario, vale a dire due macine di mulino poste una sull’altra. Nel senso che i colori del campo dello scudo e di dette macine non è stato fin ora scopribile in nessuno stemmario o pubblicazione o sito. Quando ormai non pochi anni fa’ un modellista per primo (ops’…io) riprodusse il Durfort in forma di soldatino decise, non potendone fare a meno, per l’ipotesi cromaticamente più “mimetica”  rispetto al seminato di gigli, inequivocabilmente di Francia della veste così come è rappresentata sul monumento. La colorazione ipotetica decisa fu campo azzurro e macine bianche. Da allora chi fa il pezzo Durfort fa così….sempre che io sappia!

10 – Foglio di lavoro.

Questa cartella tratta dal mio archivio mostra in alto il monumento di Guillaume Berard de Durfort. I disegni ricostruttivi sono nell’ordine di E. T. Coelho da “Il sabato di San Barnaba”, di I. Heat da “Armies of Feudal Europe, 1066-1300 e di V. F. Boccia da 2. Dizionari Terminologici – Armi difensive dal Medioevo all’Età Moderna. La linea vagamente scampanata del casco (cervelliera) è abbastanza inusitata ma la scoperta di un armato equipaggiato con qualcosa di similare raffigurato in un bassorilievo napoletano posteriore di qualche decennio, me ne conferma l’attendibilità quanto meno a riguardo dell’ambiente di provenienza. Il tronco pare protetto da una struttura rigida mentre la parte sventolante della veste pare rimboccata alla cintura per motivi d’ingombro; coerente la daga “ad acca”. La protezione degli arti inferiori si articola in cosciale-ginocchiello-stincale in cuoi cotto stampato a caldo e decorato con girali e fiori poi ragionevolmente dorati “a foglia d’oro bono” a mordente. Visitando le chiese del Meridione d’Italia ci si accorge di come i giacenti che vi si trovano presentino tutti questi stessi elementi fino al terzo quarto del trecento.

11 – Guillaume Berard de Durfort.

 

Ricostruzione grafica del cenotafio Durfort tratta da “Abiti e Fogge Civili e Militari dal I al XVIII secolo – raccolta di disegni del Cav. Federigo Stibbert”.

12 – Dante Alighieri.

Dante, ventiquattrenne, partecipò alla battaglia di Campaldino. Di famiglia piuttosto agiata Dante era tenuto a servire il Comune di Firenze in guerra come cavaliere e a Campaldino fu scelto per far parte dei feditori per il suo Sestiere di appartenenza, quello di Porta San Piero (vedi il pennoncello della lancia giallo). I feditori erano quei cavalieri che, nominati prima dell’inizio della battaglia, erano incaricati di portare il primo attacco. Il nostro personaggio indossa cappello di ferro, usbergo e protezioni di gamba in cuoio cotto: equipaggiamento sobrio ma di pregio come si addice ad un membro della piccola nobiltà o della media borghesia cittadina. Il cavallo è di buona qualità: su questo i controllori comunali adibiti alla verifica dell’efficienza degli animali mantenuti dai cittadini tenuti alla cavallata non transigono. Passando allo stemma il partito d’Azzurro e di Rosso alla fascia d’Argento attraversante la partizione è quello più accreditato (ma non l’unico) per la famiglia Alighieri.

13 – Cecco Angiolieri.

 

“si fossi Cecco come sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre, e vecchie e laide lasserei altrui”. E’ questo forse il verso più famoso del poeta senese Cecco Angiolieri. Al tempo di Campaldino  Siena ghibellina era uno sbiadito ricordo e la città della balzana, caduta nell’orbita di Fiorenza, forniva contingenti militari all’antica rivale. Dunque l’Angiolieri  fu  della giornata del grande odio dalla parte dei guelfi.  Cecco, figlio del suo tempo, era nello stesso tempo membro dei Cavalieri Gaudenti (non tragga in inganno la forma abbreviata per definire l’ordine dei “Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria”) ma nello stesso tempo una vera e propria “testa calda”. La mia figura lo ritrae così come l’ho immaginato, armato alla francese, mentre guarda le sue armi ed il suo scudo “stemmato” con una gran voglia di vendersi tutto per spendere i proventi dell’affare in una bella “briaha” di gruppo.

14 –  Attacco dei feditori fiorentini del sestiere di Porta San Piero.

La  bandiera gialla identifica il corpo di cavalleria di Porta San Piero. La figura centrale rappresenta Vieri de’ Cerchi, accompagnato alla sua destra da uno dei suoi figli in ragione del seguente passo tratto dalla Cronaca di Giovanni Villani. “…e essendo messer Vieri de’ Cerchi de’ capitani, e malato di sua gamba, non lasciò perciò di voler essere de’ feditori; e convenendoli eleggere per lo suo sesto, nullo di ciò volle gravare più che si volesse di volontà, ma elesse se e ‘l figliolo e’ nipoti; la qual cosa gli fu messa in grande pregio….”.  Al tempo della battaglia di Campaldino i Cerchi 

 

15 – Corso Donati, detto “il Gran Barone”.

 

Corso Donati comandava il contingente pistoiese (vedi la bandiera di Pistoia a scacchi bianchi e rossi). Disobbedendo agli ordine di restare fermo in riserva e sferrando un potente attacco contro l’esercito ghibellino, capovolse le sorti della battaglia a favore dei guelfi.

16 –  L’insegna reale a Campaldino.

Gherardo de’ Tornaquinci, detto Ventraja, venne scelto come portatore della bandiera inviata all’oste guelfa dal re di Napoli Carlo “lo Zoppo” (Villani: insegna reale). I tre stemmi diversificati sulla coverta che sono,  sestiere di San Pancrazio, Popolo di Firenze, arma Tornaquinci, sottolineano il rapporto dialettico fra i doveri del personaggio rappresentato in quanto cittadino in armi al servizio della comunità ed il senso di appartenenza alla propria famiglia per la quale anche un borghese guelfo pretende visibilità e prestigio. Il seminato di gigli di Francia Antica differenziato dal lambello rosso è lo stemma angioino del regno di Napoli.

 

17/18 – Barone de’ Mangiadori da San Miniato.

 

La sequenza delle tre immagini consente di seguire il passaggio da una fonte iconografica coeva ad modello ispirato ad essa. a – Matrice di sigillo di Guifredo di Lomello, 1275-1300, Museo Nazionale del Bargello, Firenze. b – Ipotesi di ricostruzione di E. T. Coelho da “Il Sabato di San Barnaba”. I sommari elementi visibili sul reperto vengono identificati ed interpretati. c – Modello raffigurante Barone de’ Mangiadori da San Miniato. Atipici l’usbergo lungo e gli stivali nonché l’ogiva molto pronunciata dell’elmo. Il cronista Dino Compagni ci racconta che Barone  pronunciò la seguente frase: “Signori, le guerre di Toscana si sogliano vincere per bene assalire; e non duravano, e pochi uomini vi moriano, che non era in uso l’ucciderli. Ora è mutato modo, e vinconsi per stare ben fermi. Il perché vi consiglio, che voi siate forti, e lasciateli assalire.”

19 – Bindo del Baschiera Tosinghi.

L’armamento del personaggio si ispira agli affreschi di San Gimignano ed al San Maurizio di Magdeburgo. Lo stemma è elaborato in misura insolita per l’ambiente araldico toscano. D’Oro al leone di Nero seminato di crescenti del campo. Bindo morì in seguito alle ferite sofferte in battaglia. “Fu fedito messer Bindo del Baschiera Tosinghi, e così tornò a Firenze, ma fra pochi dì morì.”

 

20 – Bandiera della parte guelfa di Arezzo. Fine XIII sec.

 

Un membro della famiglia Bostoli porta in battaglia la bandiera dei guelfi d’Arezzo. La banda di Francia alla bandiera ed allo stemma sono inequivocabili segni della fede guelfa; il leone è “al naturale”. Si notino il frontalino metallico che protegge il muso del cavallo e la traversina che collega i bracci del morso.

21 – Maghinardo Pagani da Susinana.

Maghinardo Pagani da Susinana aveva i propri domini sull’Appennino a cavallo fra Toscana e Romagna. Politicamente ondivago, in occasione dell’offensiva guelfa in Casentino si schierò dalla parte della guelfa Firenze. Si osservi l’elaborato cimiero a ventaglio tipico dell’epoca.

22 – Porta bandiera del sestiere di Porta San Piero. Firenze, 1250-300.

 

Le chiavi rosse sono un chiaro riferimento alle chiavi di San Pietro. La veste indossata da questo fante è rinforzata al suo interno da tre file di placche rigide rettangolari (cuoio cotto o ferro). La posizione del personaggio trae ispirazione da un porta bandiera del 32nd Foot di Bill Horan pubblicata a pag. 50 del libro “Military Modelling Masterclass” dello stesso autore.

23 – Porta bandiera del sestiere di San Pancrazio. Firenze, ultimo quarto del XIII sec.

La branca di leone rossa in campo bianco assume quasi un valore di “arma parlante” in quanto motivo della storpiatura coeva della denominazione del sestiere da San Pancrazio a San Brancazio. Lo scudo tondo è adeguato per un fante del XIII secolo.

 

 

24 – Porta bandiera del sestiere di Borgo. Firenze, ultimo quarto del XIII sec.

 

Il caprone nero (becco) in campo bianco è l’insegna del sestiere di Borgo. L’evidenziazione in rosso dei genitali dell’animale ha un chiaro significato allusivo. Degno di nota il pregiato usbergo di maglia di ferro completo di guanti a muffola.Il ponte fortificato rosso è riferimento palese al ponte che collegava il sestiere di Oltrarno, posizionato sulla riva sinistra del fiume che attraversa Firenze, al resto della città che fin dalla fondazione si era sviluppata sulla riva destra. L’Oltrarno , proprio in ragione della sua urbanizzazione successiva veniva scelto come insediamento cittadino dalle famiglie provenienti dal contado: la così detta “gente nuova”. La cervelliera è dipinta di bianco e di rosso, i colori dell’insegna dell’oste fiorentina. Si noti lo spadone ad un solo taglio detto giusarma.

25 – Bandiera del sestiere di Oltrarno. Firenze, ultimo quarto del XIII sec..

Il ponte fortificato che decora la bandiera di Oltrarno ritrae la forma primigenia del “Ponte Vecchio” che ancor oggi conduce al quartiere di Oltrarno, che, ultimo ad essere popolato, accoglieva la “gente nova” che si inurbava proveniendo dal contado fiorentino.

 

26 – Bandiere del sestiere di San Pier Scheraggio. Firenze, ultimo quarto del XIII sec..

 

La bandiera a fasce gialle e nere è quella della cavalleria del sestiere. Entrambi gli armati indossano un armamento rigido del tronco portato “a vista”. La combinazione di elementi che proteggono la testa ed il collo del personaggio a piedi, cioè un casco fortemente ogivato ed un collare composto da due file di grosse scaglie imbricate, è tratta da un’illustrazione di Eduardo T. Coelho pubblicato sul libro di AA.VV., Il Sabato di San Barnaba dedicato alla battaglia di Campaldino. Il celebre illustratore ha utilizzato come fonte un “Roman de Tristan” datato fra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Lo smembramento della figura Soldiers “Vieri de’ Cerchi” ha procurato la testa ed il braccio destro completo di elmo per la figura a cavallo, il tronco per la figura a piedi.

 

27/28 – Bandiere dei palvesari fiorentini, 1250-300.

Il corpo dei palvesari fiorentini era suddiviso in due compagnie, quella rossa e quella bianca, ciascuna delle quali risultava dall’accorpamento dei palvesari di tre sestieri. Ci è noto il fatto che la bandiera della compagnia rossa aveva il fondo, appunto, rosso con su uno scudo bianco decorato da un giglio rosso; la compagnia bianca aveva i colori di fondo, scudo e giglio invertiti. Una miniatura del codice detto “del Biadaiolo”, fiorentino  trecentesco ( vedi fig 8e), testimonia che come in tutto l’occidente europeo era in uso dipingere i pavesi con i colori delle comunità di appartenenza o con lo stemma nobiliare di riferimento. Le miniature della cronaca del Sercambi, lucchese, contengono innumerevoli raffigurazioni di palvesi dipinti con i colori ed i simboli delle varie città della Toscana. Un palvese, conservato presso il museo Bardini di Firenze, peraltro di difficile datazione presenta una colorazione rossa per il suo terzo (circa) superiore e bianca per i restanti due terzi. Chiaramente riferita al classico abbinamento bianco/rosso fiorentino, tale colorazione suggerisce come plausibile riproporre i palvesi fiorentini delle duecentesche compaglie bianca e rossa dipinti con uno dei due colori prevalente.

 

 

29 – Landino di Nato a Campaldino.

 

Una lapide racconta l’impresa dell’eroico Landino che trovandosi a Campaldino, oscuro membro della grande oste guelfa, raccolse la bandiera della società della Ferza dalle mani del suo portatore ferito a morte e si getto contro il nemico seguito da colore che presso di lui avevano tratto nuovo entusiasmo guerriero dal suo gesto. La società della Ferza era una di quelle in cui era suddiviso il sestiere d’Oltrarno; di conseguenza entrambi i personaggi portano sul petto il lo scudetto con il ponte fortificato, simbolo di quel quartiere. Si noti l’essenzialità dell’equipaggiamento di Landino in confronto a quello del porta bandiera, personaggio sicuramente più ricco e più in vista.

 

30 – Armati del sestiere di Borgo.

Attraverso il valico della Consuma, che mette in comunicazione il Casentino (alta valle dell’Arno) con Firenze attraverso la val di Sieve, i Fiorentini rientrano nella loro città dopo la vittoria di Campaldino. Il fante in primo pieno appartiene alla Società Militare, o Gonfalone che dir si voglia, della Vipera mentre l’addogato (palato) d’argento e d’azzurro è quello della cavalleria del sestiere. Il casco del cavaliere appiedato è chiaramente ispirato a quello visibile sul monumento Durfort.

31 – Codice di Manesse.

 

Questa miniatura è tratta dal “Grossen Heidelberger Liederhandschrift”, meglio conosciuto come “Codice di Manesse”. Si è soliti datare tale opera intorno al 1300 per cui, anche ammesso che il miniatore si rifaccia a tipologie d’armamento precedenti o indugi in una rappresentazione convenzionale, appare subito evidente come l’aspetto dei cavalieri di ambiente tedesco appaia diverso da quello provenzale-napoletano-toscano visto in precedenza. Del resto tutti gli studiosi concordano sul conservatorismo che fra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV rallentava nei paesi di lingua tedesca l’evoluzione dell’armamento. La presenza pressoché senza eccezione nelle raffigurazioni del “Codice di Manesse “ del grande elmo “a staro” ancora a cielo piatto e la quasi totale assenza di piastre metalliche (o di altro materiale rigido) integranti la maglia di ferro a protezione degli arti,  ne è una perfetta testimonianza. Nello stesso tempo gli imponenti cimieri e i lambrecchini posti sopra l’elmo con grande frequenza, sono tipici dell’area tedesca.

 

32 – Heinrich von Frauenberg.

La presente figura riproduce tridimensionalmente, interpretandone gli elementi significativi, il protagonista della miniatura mostrata in precedenza. Notevole il cimiero formato da due artigli di rapace con riferimento al grifone fello stemma. Il motivo a zigzag bianco e rosa della veste non hanno valore araldico.

 

 

33 – Elmo di Dargen, 1270-80. Museum fur Deutch Geschichte, Berlino.

 

Si tratta dell’elmo duecentesco meglio conservato e sicuramente il più studiato. Un’attenta lettura consente di individuare i sei distinti pezzi che compongono il reperto. Elmi di questo tipo (e del tipo proposto nella prossima immagine) equipaggiavano in prevalenza i cavalieri di ambiente tedesco e presumibilmente anche quelli italiani di “fede” ghibellina.

 

34 – Elmo, Bolzano 1290-1300. Castel Sant’Angelo, Roma.

Pur mantenendo nella sostanza la linea di quello di Dargen, principalmente nel cielo piatto, l’elmo di Bolzano ne rappresenta la diretta evoluzione. I pezzi che lo compongono stavolta sono cinque e la ferratura di rinforzo della vista è sostituita da una semplice lingua di fissaggio. Da questa tipologia evolveranno tutti gli elmi trecenteschi che, allontanandosi progressivamente dai campi di battaglia, popoleranno le lizze dei vari giochi guerreschi quali le giostre ed i tornei.

35 – Cavalieri tedeschi, fine XIII sec..

 

Sono rappresentati nell’ordine: Heinrich, Landgravio d’Assia, 1298; Cavaliere di Cristo, cattedrale di Strasburgo 1290; Cavalieri, stalli di un coro proveniente dalla Stiftfkirche di Wasenberg, Schnutgenmuseum, Colonia, c. 1290. L’assoluta mancanza di piastre a protezione degli arti conferma il conservatorismo dei tedeschi nel campo dell’armamento protettivo. Si conferma dunque quanto è dato vedere nelle miniature del codice di Heidelbergh.

 

36 – Studio di un armato tedesco, c. 1300.

In questo schizzo Eduardo T. Coelho interpreta magistralmente il San Maurizio di Magdeburgo (vedi fig. 8) suggerendo di completare l’apparato protettivo con un cappello di ferro.

37 – Ciclo degli Elettori Palatini, Mainz 1318-1330.

 

In questa pagina tratta dal mio archivio iconografico si ha la dimostrazione di quanto lentamente e tardivamente si sia evoluto l’armamento difensivo in Germania. Infatti, se da una parte il bacinetto ed il camaglio si sono affermati, dall’altra si ha  soltanto l’ adozione di semplici ginocchielli come protezioni rigide degli arti; tutto questo considerato che siamo già intorno al 1330

 

38 – Cavaliere ghibellino. Italia centrale, fine del XIII sec..

L’elmo di questo cavaliere riproduce quello detto “di Dargen”,  è dorato (con foglia d’oro “bono” applicata a mordente) ed arricchito con un cimiero a ventaglio ai colori dello stemma che è d’Oro a 3 sbarre d’Azzurro. Le sbarre che, contrariamente alle bande, vanno dall’alto a destra al basso a sinistra sono correttamente rappresentate invertite sulla coverta e sul cimiero. Gli stincali e i guardaspalla in piastra metallica italianizzano il soggetto.

39 – Guglielmino degli Ubertini, vescovo di Arezzo.

 

Guglielmino degli Ubertini, vescovo di Arezzo, era un tipico figlio del suo tempo dunque provvisto di una sfrenata ambizione personale che lo portava ad un comportamento politicamente ondivago. Il Villani lo definisce “più huomo d’arme, che à onestà di cherica.” A Campaldino Guglielmino  era a capo dell’oste ghibellina. Lo spaccato dentato (dentellato, inchiavato) d’Oro e di Rosso della coverta e dello scudo non corrispondono allo stemma degli Ubertini bensì a quello dei Pazzi di Valdarno.Spesso nelle battaglie del medio evo si vestivano più persone con i colori dei personaggi più importanti coinvolti nel combattimento allo scopo di indurre in errore chi avesse voluto catturarli; oppure, come in questo caso, scambiare la “vestizione” dello stemma con un altro personaggio. A Campaldino lo scambio avvenne fra Guglielmino degli Ubertini e suo nipote Guglielmo “Pazzo” dei Pazzi di Valdarno. L’espediente non fu però sufficiente: il suo corpo esanime venne trovato sul campo a battaglia finita.

 

40 – La bandiera imperiale a Campaldino.

Simmetricamente ai guelfi anche i combattenti di parte ghibellina avevano a Campaldino un’insegna di riferimento: l’aquila imperiale. L’onore e l’onere di portarla in battaglia fu affidato a tale Guidarello da Orvieto (Villani: Guidarello d’Alessandro da Orbivieto), personaggio “di gran nome”. Pare incredibile ma sulle caratteristiche dell’aquila imperiale , malgrado la sua importanza, il suo perdurare ed il suo radicamento nell’immaginario collettivo, non si hanno certezze assolute. Il suo essere o non essere bicipite ha un percorso discontinuo sia, parrebbe,  in seguito ai “gusti” dei vari imperatori, sia come conseguenza dell’assenza di vere regole ferree in tutta la prima parte  della fortuna della disciplina araldica. L’aquila qui rappresentata si rifà ad una fonte iconografica di fattura tedesca cronologicamente vicina all’avvenimento Campaldino: il famoso codice di Heidelberg meglio ancora conosciuto come codice di Manesse. Il suddetto codice, almeno nella sua prima e più importante parte, è datato ad un anno intorno al 1300 e mostra nella sua prima miniatura  l’imperatore Enrico VI in trono con alla sua destra lo scudo ed alla sua sinistra l’elmo coronato. L’aquila sullo scudo e quella che funge da cimiero sull’elmo, entrambe ad ali spiegate e molto stilizzate, sono monocipiti con la testa rivolta verso la propria destra, hanno zampe ed artigli rossi ma becco nero con le sole “fauci” tracciate in rosso.

41 – Guglielmo “Pazzo”.

 

Guglielmo de’ Pazzi di Valdarno, che il Villani nella sua “Cronica” vuole “…il migliore e ‘l più avvisato capitano di guerra che fosse in Italia al suo tempo”, combatte e cade a Campaldino con indosso “l’arme” del leone rosso dello zio Ubertini, scambiata con la sua. Anche in questo caso il suo elmo è un “Dargen” classico, dipinto di rosso con la ferratura di rinforzo della vista dorata e sormontato da un cimiero a ventaglio di stile italiano. Gli arti inferiori sono protetti da strutture “a doccia” in cuoio cotto. Sotto la coverta del destriero è visibile una costosissima protezione in maglia di ferro.

 

 

42 – Buonconte da Montefeltro.

Il conte Guido da Montefeltro, padre del nostro personaggio, era uno dei principali esponenti del ghibellinismo centro italiano. Pochi giorni meno di un anno avanti Buonconte insieme a Guglielmo “Pazzo” era stato il vittorioso protagonista dell’evento militare passato alla storia come “Giostre della Pieve al Toppo” in cui gli Aretini avevano sbaragliato l’esercito senese comandato da Ranuccio Farnese. Si narra che Buonconte, protagonista di prima grandezza del Purgatorio dantesco, perse la vita a Campaldino in seguito a una ferita alla gola dopo aver vagato per il campo agonizzante . Ho rappresentato Buonconte accompagnato dal suo porta bandiera mentre crolla a terra insieme al suo cavallo. L’armatura del tronco ripropone nella sostanza il “poncho” corazzato del San Maurizio di Magdeburgo e l’elmo ed il cimiero si rifanno chiaramente agli affreschi sangimignanesi. Si osservi il guanto in maglia di ferro separato dalla manica dell’usbergo laddove in precedenza detta manica terminava in una “muffola” ad essa connessa senza soluzione di continuità. Registro (con il senno del poi) che il mio Buonconte ha un aspetto un po’ troppo guelfo; oggi cambierei qualcosa! Il bandato d’Oro e di Rosso portato dal porta bandiera vuole ammiccare ad un membro di un possibile ramo collaterale della famiglia. Loccio, fratello di Buonconte, muori anch’esso in battaglia. Aveva uno stemma diverso? Mistero…..!

43 – Percivalle Fieschi.

 

Membro di una delle più antiche ed importati famiglie liguri, quella dei Fieschi conti di Lavagna, Percivalle è uno dei più significativi protagonisti della battaglia di Campaldino dalla quale sopravvive. Vicario Imperiale istiga più di ogni altro il vescovo aretino allo scontro e coerentemente lo segue in battaglia benché anch’egli uomo di chiesa. L’arma che impugna è la mazza: niente armi da taglio per i chierici in quanto, con un’ipocrisia tutta medievale (solo medievale…!?), il sangue non ha da essere versato. Lo stemma è un classico bandato d’Argento e d’Azzurro. Premesso che in araldica il lato sinistro è in realtà quello alla destra di chi guarda, il bandato si blasona iniziando con lo smalto posto in capo “araldicamente” a sinistra, in questo caso l’Argento. Per chi non lo sapesse il verbo “blasonare” significa descrivere lo stemma a parole.

 

 

44 – Guido Novello dei conti Guidi.

I Guidi, famiglia di antica nobiltà tedesca al tempo di Campaldino, e già da secoli, dominavano il Casentino suddivisi in numerose ramificazioni familiari. Questa scenetta dedicata ai conti Guidi mostra come in area Italiana avvenisse durante il medio evo la diversificazione nell’araldica di famiglie derivanti dallo stesso ceppo. Infatti, diversamente che altrove e nella fattispecie nell’area anglofrancese, dove erano e sono tuttora di largo uso i marchi di cadenza (lambelli, bordure, crescenti, merletti, ecc.), in Italia si preferiva il cambio dei colori. Inoltre, nel caso di membri dello stesso ramo di una famiglia (in presenza di un’eventuale suddivisione in rami), l’uso dei marchi di cadenza era pressoché ignorato, per cui tutti portavano lo stesso stemma. L’arma del ramo familiare al quale apparteneva Guido Novello vedeva il classico inquartato in croce di S. Andrea tipico dei conti Guidi arricchito da un leone. Il detto stemma si blasona come segue: inquartato in croce di S. Andrea d’Argento e di Rosso, al leone dell’uno nell’altro. Detto tutto questo non posso fare a meno di avvisare il lettore che la scenetta contiene un errore. Ed è uno di quegli errori che sono sempre in agguato quando si lavora modellisticamente nel campo del medio evo italiano e nella fattispecie toscano. Infatti l’inquartato in croce di S. Andrea d’Argento e di Rosso (privo del leone) è la variante identificativa del ramo dei Guidi di Romena, diverso da quello di Guido Novello e appartenente al partito guelfo. Il conte era sceso in battaglia di malavoglia, per naturale pusillanimità e per le parole scoraggianti di un indovino. Posto con la sua gente come riserva dello schieramento ghibellino, nel momento in cui le sorti dello scontro volgevano a favore dei nemici, invece di intervenire a sostegno di Guglielmino e soci preferì volgere le terga ed abbandonare frettolosamente il campo. Ci narra il Compagni: “Il conte Guido non aspettò il fine, ma senza dare colpo di spada si partì.”

 

45 – Gli sbanditi fiorentini.

 

Molti appartenenti alle grandi famiglie ghibelline scacciate da Firenze combattono a Campaldino in appoggio agli Aretini. I cavalieri di questa scenetta appartengono ai Lamberti ed ai Fifanti. Lo stemma dei Lamberti qui rappresentato, d’Azzurro a 3 palle d’Oro, è una delle varianti per questa famiglia; l’altra prevede 6 palle. I Lamberti erano fra gli irriducibili ed uno di loro, Mosca, uccidendo nel 1216 Buondelmonte de’ Buondelmonti, aveva dato così pretesto per l’inizio delle lotte fra guelfi e ghibellini in Firenze. Ciante dei Fifanti cade a Campaldino insieme ad altri della sua famiglia. L’elmo a staro porta dipinta la banda rossa in campo d’oro del suo stemma, ripetuto sulla veste,  sulla coverta e sullo scudo, quasi un “grido” di orgogliosa appartenenza familiare. La protezioni degli arti, compresa la scarpa rivettata, sono tipicamente toscane.

 

 

46 – Un Uberti di Sicilia assalito dai fanti di San Pier Scheraggio.

Lo scudetto bianco caricato della ruota azzurra denota i fanti come appartenenti al sesto di San Pier Scheraggio. Credo valga la pena soffermarsi sullo stemma Uberti presente sul cavaliere. Era mia intenzione  rappresentare un membro del ramo siciliano della famiglia data la notizia che alcuni Uberti di Sicilia parteciparono alla battaglia. Fermo restante lo scaccato d’Oro e d’Azzurro della partizione di sinistra (destra per chi guarda), tipica degli Uberti,  quella di destra è di Rosso alla mezz’aquila d’Argento, così come riportano gli stemmari siciliani. Nello stesso tempo è altrettanto vero che nessuno stemmario fiorentino pervenutoci riporta la mezz’aquila nera in campo oro, tipica partizione di destra dello stemma Uberti di Firenze, bensì il primo di questi stemmari datato 1302 porta la mezz’aquila argento su rosso e così quelli successivi. Gli insigni araldisti Rietstap e Crollalanza attribuiscono al ramo principale della famiglia la versione oro/nero prendendo spunto, suppongo, da una lapide dipinta conservata a Firenze. Va da sé che questa versione alludeva alla profonda fede filo imperiale di Farinata e dei suoi per cui non è da escludere che i membri residuali della famiglia abbiano deciso di allontanare da sé l’immagine dell’aquila imperiale sostituendola con quella del ramo siculo, sicuramente meno allusiva. Questo potrebbe essere il motivo della presenza di quest’ultima negli stemmari fiorentini a partire già dal 1302. Spesso è difficile districarsi ed avere certezze nel campo dell’araldica medievale e della ricostruzione storica in genere. In questo caso comunque ho la sensazione di averci azzeccato….!

 

47/48 – Guelfi e Ghibellini: sempre!

 

Un Barbolani di Montauto e un Cavalcanti combattono all’arma corta manesca. Il Barbolani, ghibellino del contado aretino,  porta un elmo del tipo “Castel Sant’Angelo” con cimiero a ventaglio all’italiana; indossa una veste damascata lunga all’antica ma protegge fortemente le gambe con un apparecchio composto da un imbottito di coscia, un ginocchiello ed uno stincale metallici. Nel complesso la veste all’antica è bilanciata dalla assoluta modernità dell’elmo a staro di ultima generazione e dalle protezioni degli arti. L’aquila bicipite appollaiata sulla lista azzurra appare di una straordinaria efficacia evocativa. Il Cavalcanti, guelfo di Firenze di un’antica famiglia magnatizia, protegge il capo con una crestuta. L’armatura è quella più volte vista ispirata al santo guerriero di Magdeburgo mentre le protezioni rigide agli arti interessano il totale della gamba, i guanti e le spalle, il tutto in cuoio cotto salvo le scarpe composte da scaglie metalliche. Con questo lavoro mi sono riproposto di rappresentare una sorta di resa di conti nel terribile confronto che per quasi due secoli insanguinò l’Italia, città contro città, famiglia contro famiglia, individuo contro individuo con motivazioni che andavano dalle più alte attinenti ai massimi sistemi del confronto, per il tempo “planetario”,  fra Papato e Impero alle più basse, scaturigine di odi e risentimenti personali. Con la sconfitta di Campaldino il ghibellinismo toscano subiva un ridimensionamento irreversibile lasciando il campo ai conflitti interni alla sua parte avversa, quella guelfa, che divisa in bianchi e neri avrebbe nei decenni successivi raccolto dall’antico nemico il testimone degli odi più irriducibili e nefasti.